26 novembre 2020

Carlo De Benedetti parla della Fiat: "Il ruolo di produttore di automobili è finito"

Intervista integrale su Quattroruote di dicembre

Io non volevo distruggere la Fiat, semmai ridimensionarne i costi, ma non il ruolo di produttore di automobili. Un ruolo che è finito”. Così Carlo De Benedetti spiega a Quattroruote la sostanziale differenza tra il piano da lui proposto nel 1976, e mai accettato, e lo scenario attuale dopo il matrimonio annunciato tra FCA e PSA, sul quale aggiunge: “Vendere era l’unica alternativa valida. John Elkann ha fatto benissimo e ha gestito la trattativa molto bene. Per quelli della mia generazione e per quelli che hanno passato tutta la vita alla Fiat, sentimentalmente è un dispiacere enorme ma la Fiat non è più a Torino da qualche anno. Da sola non poteva farcela”.

A 44 anni di distanza l’Ingegnere affida a Quattroruote l’esclusivo racconto dei retroscena della sua reggenza, i motivi per cui il suo piano di rilancio fu respinto, i rapporti con i fratelli Agnelli e gli scontri con Romiti e gli altri top manager. E il grande orgoglio di aver ideato, in soli 100 giorni, l’auto che ancora oggi resta la bestseller della Casa: la Panda.

Dovetti pormi il problema di una gamma sorpassata. Bisognava fare qualcosa, ma nell’automotive senza soldi è difficile. Conoscevo di fama Giorgetto Giugiaro perché aveva disegnato la Golf per la più grande Casa del mondo. Era un uomo messo all’indice dal sistema Fiat per una legge non scritta in forza della quale chi lasciava l’azienda non poteva più metterci piede e lui a diciassette anni ci aveva lavorato per poco tempo. Gli dissi: “Voglio una macchina jeans, che ricordi la Citroën 2CV. Però non abbiamo soldi da spendere: dev'essere una macchina con le lamiere piatte, perché gli stampi costano meno. Il chassis dev'essere quello della 127 e deve poter montare i motori due cilindri della 126 e quattro cilindri della 127. Siamo a maggio e a settembre voglio i disegni”. Quando poco dopo decisi di andarmene – spiega l’Ingegnere a Gian Luca Pellegrini, direttore di Quattroruote – la cosa semplice sarebbe stata dirgli di tenersi i disegni. Invece Umberto Agnelli volle fare suo il progetto della Panda. Giugiaro non venne mai accettato come designer del gruppo ma venne fuori il modello più venduto della storia del marchio. Ho l’orgoglio di aver fatto da solo una vettura, disegnata da Giugiaro e adottata da Umberto.

Passarono solo 100 giorni dalla nomina di Ad alla sua decisione di lasciare l’azienda. Poco più di tre mesi in cui De Benedetti si rese conto di come la sua visione, e le sue aspettative di manager, non potevano combaciare con quelle della gestione famigliare firmata Agnelli.

Quando sei nato e vissuto a Torino, fai il fornitore della Fiat e ti chiamano a fare l'amministratore delegato, non fai tante analisi e tanti ragionamenti: accetti e via. Fu una decisione presa d'istinto. Poi mi accorsi di avere sbagliato”, ammette l’Ingegnere, sottolineando come nel giro di pochi giorni passò dall’essere Ad della Holding con cinque deleghe a doversi occupare di tutta l’azienda sostituendo Umberto Agnelli che aveva deciso di candidarsi in politica. “Mi fu chiesto di occuparmi dell'intera azienda. Cosa che io non gradii”, spiega De Benedetti a Quattroruote. “Ero entrato da poco, dovevo ancora fare esperienza. Però sì, tenga presente che all'epoca la Fiat era gestita dalla famiglia Agnelli come un fatto padronale. Altro che corporate governance: se uno dei fratelli prendeva una decisione, la discussione terminava lì”.

E fu proprio la decisione dell’Avvocato Gianni Agnelli di non prendere in considerazione il piano di restauro aziendale proposto dal manager a decretare la fine del rapporto: “Volevo riportare la Fiat al profitto puntando sul controllo di gestione. Gli dissi che dovevamo mandare via 60 mila persone. Mi chiese dove fossero tutti quei dipendenti. Gli risposi “Avvocato, se sapesse leggere i conti saprebbe trovarli" e gli feci vedere che il peso del costo del lavoro sul venduto era inaccettabile secondo i parametri degli altri costruttori. Erano gli anni del terrorismo, licenziare 60 mila persone era un fatto rivoluzionario, visto dalla prospettiva dell'impresa. Agnelli andò a Roma per parlarne al governo e Amintore Fanfani rispose che il piano era impossibile da realizzare. Avevo il 5% della Fiat, ero il singolo azionista più grande e non ero disposto a vedere distruggere i miei soldi. Per un manager poi, dirigere un’impresa senza poter intervenire sul problema che ne compromette la competitività è la peggiore cosa. E lì uscii.

 

Finì così il suo brevissimo mandato in Fiat, durante il quale non mancarono scontri aperti con gli altri top manager a partire da Cesare Romiti, Paolo Volpolini, direttore del personale ricordato come “ottima persona ma intellettuale comunista”, e il direttore delle strategie Gianmario Rossignolo: “Lo feci fuori perché sosteneva che l’automobile fosse un’industria finita e un mestiere da Paesi sottosviluppati. Che senso aveva per la Fiat avere un capo della strategia convinto che l’auto fosse finita. Umberto comunque lo ripescò”.

La lettera di dimissioni fu di fatto il secondo no che l’Ingegnere rivolse ad Agnelli. Il primo risaliva alla fine del mandato dell’Avvocato come presidente di Confindustria: “Mi chiese se fossi interessato a sostituirlo. Risposi di no. Fui una delle poche persone a dire di no ad Agnelli”.

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